lunedì 30 aprile 2012

Non Chiamateli Giochi: il Go

Affascinante e dalle nobili origini, “Go” è il nome giapponese di un gioco da tavolo strategico per due giocatori, noto in Cina col nome di Weiqi (letteralmente gioco del circondare), ed in Corea come Baduk. Conosciuto dai più come gli “Scacchi d’Oriente”, sembrerebbe essere nato in Cina circa 4000 anni fa. Inizialmente collegato ad antiche pratiche divinatorie, si diffonde successivamente fra la classe dei letterati come gioco di strategia e raffinata metafora dell’equilibrio delle forze naturali. Annoverato tra la quattro arti dello junzi (il gentiluomo cinese), assieme alla calligrafia, alla pittura ed a suonare lo guqin, il go, come molti altri aspetti della vita politica e sociale, costituiva un esercizio, una parte del tutto, volto a migliorare la propria posizione mentale in relazione al mondo esterno: vuole difatti la leggenda che l’imperatore cinese Yao (2337–2258 a.C.) lo fece inventare dal suo consigliere Shun allo scopo di insegnare a suo figlio la disciplina, la concentrazione e l’equilibrio.
Oggigiorno il go è diffuso nell’intero Oriente e praticato da persone di tutte le età, con fini didattici nelle scuole, di ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale nelle università o agonistici nei numerosi circoli, includendo una folta schiera di giocatori professionisti.
Caratterizzato da regole molto semplici, il go dà origine ad una strategia sorprendentemente complessa. Il piano di gioco (detto goban) è un reticolo di 19 righe orizzontali e 19 righe verticali, che si intersecano in 361 incroci, ma è frequente l’uso, per fini principalmente didattici, di goban ridotti con 13×13 o 9×9 intersezioni. I due giocatori depongono a turno le loro pietre (goishi), custodite in appositi contenitori (goke), su un qualsiasi incrocio libero, senza più rimuoverle una volta collocate, cercando allo stesso tempo di connetterle tra loro, al fine di dar forma ai rispettivi territori in cui alla fine sarà diviso il goban. Vincitore non sarà chi ha annientato l’avversario, come spesso accade in altri giochi, bensì chi sarà riuscito a formare territori più ampi, attraverso una meccanica di gioco che premia l’equilibrio. Nonostante la staticità delle pietre, il go è un gioco molto dinamico, molto simile ad una guerra: si parte con il consolidamento delle basi per poi espandersi, ci sono battaglie, accerchiamenti e catture, scambi di territorio, invasioni e ritirate, astuzie tattiche e decisioni strategiche, fino al consolidamento finale dei territori.
Il go è fondamentalmente una simulazione di scenari economici. Potrebbe essere paragonato, per analogia col mondo degli affari e rifacendosi al “Ciclo di Deming”, ad un piano a lungo termine che sfrutta a fondo il controllo di qualità, volto al miglioramento continuo dei processi e all’utilizzo ottimale delle risorse. Al contrario, la dama e gli scacchi cercano il profitto nel breve termine, focalizzando le energie su pochi e mirati aspetti. Ciò che contraddistingue infatti il go dai giochi occidentali della dama e degli scacchi è il frequente uso del pensiero strategico rispetto a quello tattico. Quando si gioca a go, è necessario usare nello stesso tempo facoltà intuitive ed analitiche, di contro la dama e gli scacchi sono analitici dall’inizio fino alla fine ed ogni mossa viene compiuta in seguito ad una analisi. Nel go il puntare o selezionare un solo aspetto in modo esaustivo non porta beneficio anzi è estremamente pericoloso, poiché “nulla ha senso se non nel contesto”. Il successo deriva da una serie di gradi, l’obiettivo, pertanto, non è tanto quello di sconfiggere l’avversario, quanto di massimizzare vantaggi e svantaggi.
Ritroviamo in quanto affermato la storica dicotomia tra Oriente ed Occidente, il loro differente approccio alla filosofia, alla politica, all’economia, all’uomo ed al senso della vita, in linea con il modo di pensare e agire occidentale “per principio”, dando importanza alle ideologie, all’assoluto, al bianco o nero, rispetto alla maniera orientale, che pensa ed agisce “per circostanza”. Le pedine, i pedoni e pezzi della dama e degli scacchi come mezzi per raggiungere il fine, la pietra del go, nell’alternarsi di yin e yang, come parte del tutto.
La pratica del go permette quindi a comuni studenti o semplici giocatori di stimolare ed esercitare l’uso di entrambi gli emisferi cerebrali, l’uno logico-razionale (cioè sequenziale, analitico, deduttivo) e l’altro intuitivo-olistico (cioè sintetico, globalizzante, induttivo), sviluppando le naturali abilità logiche e creative.

- da AetnaNet del 30 Aprile 2012 
- da Sotto Le 2 Torri - Il Foglio di Bologna n° 31 - Aprile 2012 - Pagina 18 

lunedì 2 aprile 2012

Non Chiamateli Giochi: gli Scacchi

Tra i giochi tradizionali degni d’attenzione un posto d’onore lo meritano senz’altro gli Scacchi. Strettamente collegati alle diverse discipline scolastiche si sono facilmente inseriti, in tandem con la Dama, nell’iter formativo quali “sport a scuola”, offrendo a molti studenti occasioni di crescita umana e civile e di uso intelligente del tempo libero. È pressoché riconosciuto che chi pratica queste discipline acquisisce, in generale, maggiore capacità di concentrazione e potenzia senza sforzo le caratteristiche elaborative del cervello con notevoli effetti benefici anche in altri campi, come l’organizzazione del proprio lavoro o l’apprendimento delle materie scolastiche.
In un mondo sempre più globalizzato e tecnologico ma diviso dalla prospettiva dello scontro di civiltà, la natura trascendente del gioco degli scacchi mette insieme Oriente ed Occidente. Protagonista di una lunga staffetta tra popoli, l’origine del gioco è tuttora oggetto di studi e di controversie. Molti storici concordano che fosse conosciuto in India nel VI secolo d.C., sotto il nome di Chaturanga (quattro parti di un tutto): la scacchiera era già 8x8 ma si giocava in quattro, talvolta con i dadi, e non tutti i pezzi muovevano come oggi. Successivamente il gioco passò in Persia assumendo il nome di Chatrang, Gli Arabi lo appresero dai Persiani nel periodo della loro espansione e lo chiamarono Shatranj (dal persiano Shah, gioco dei “Re”). Con le invasioni moresche dell’Europa insulare e della Penisola Iberica, gli scacchi approdarono in Occidente tra il IX e il X secolo, diffondendosi intorno al Mille in tutta l’Europa, dapprima nelle corti, poi con la nascita dei primi giocatori professionisti. I religiosi furono grandi propagatori del gioco, nonostante tra il XII e il XV secolo alcuni concili cercarono di ostacolarne la diffusione. Il gioco attraverserà così tutta l’Età Moderna sino a giungere al primo torneo internazionale, organizzato da Howard Staunton a Londra nel 1851, e vinto dal tedesco Adolf Anderssen. Di lì a poco verrà organizzato il primo campionato del mondo, vinto nel 1886 da Wilhelm Steinitz: è l’inizio degli scacchi moderni.
Gli scacchi si giocano su una tavola quadrata, detta scacchiera, divisa in 64 case organizzate in 8 righe, dette traverse, ed 8 colonne. Ciascun giocatore dispone di un insieme di 16 pezzi, composto da (in ordine teorico di importanza crescente): i Pedoni (8), i Cavalli (2), gli Alfieri (2), le Torri (2), la Donna (1), il Re (1). Ogni pezzo si muove secondo precise modalità. Nessun pezzo può occupare una casa in cui è presente un altro dello stesso schieramento, è invece permesso catturare qualsiasi pezzo avversario, ad esclusione del re, occupandone la casa. Scopo degli scacchi è dare “scacco matto”, manovra che consiste nell’intrappolamento del re avversario: non essendo consentita la cattura del proprio re, quando lo stesso è minacciato (ovvero è “sotto scacco”) deve essere effettuata una mossa che pari la minaccia, ossia impedisca all’avversario di catturarlo alla mossa successiva; se il giocatore non può sottrarre il re dall’attacco si tratta di scacco matto e la partita termina con la vittoria dell’avversario.
Gli scacchi possiedono, oltre al naturale aspetto di competizione intellettuale, una precisa connotazione simbolica, frequentemente usata come metafora della vicenda umana. Il gioco è impregnato di simboli e metafore che da sempre hanno ispirato artisti, pittori e letterati. La celebre partita del cavaliere Block contro la Morte, descritta magistralmente dal regista svedese Ingmar Bergman ne Il Settimo Sigillo, ha un esito immodificabile ma ciò che conta non è l’impossibile vittoria finale bensì il gioco in sé, poiché finché la partita procede il cavaliere è vivo. Per Bergman, il succo della dignità umana non sta nell’aspettare passivamente che gli eventi accadano ma nell’opporvisi fermamente, sia pure in una lotta impari. In ambito politico, la Rivoluzione Russa ed il conseguente interessamento del Regime Bolscevico fecero la fortuna degli scacchi tra la prima e la seconda guerra mondiale. La Guerra Fredda consolidò questa fortuna: l’intero mondo divenne una scacchiera su cui le due superpotenze giocavano le loro mosse.
Diversamente dalla politica, nel mondo scolastico giochi come la dama o gli scacchi permettono agli studenti di sperimentare nuove strategie di apprendimento, gettando le basi di quelle che saranno le strutture del pensiero logico-deduttivo. La damiera/scacchiera costituisce un eccellente campo per far affrontare ai ragazzi attività di risoluzione di problemi e di costruzione di piani d’azione, tradizionali temi di interesse della scienza cognitiva, oltreché potenziale strumento per il recupero di soggetti con difficoltà di apprendimento. L’acquisizione delle rispettive tecniche di gioco concorre infatti alla formazione globale dell’individuo, stimolando la logica, l’immaginazione, la memorizzazione, l’attenzione e il pensiero analitico, nonché la creatività e la consapevolezza del giusto rapporto causa-effetto.
In una società sempre più proiettata verso l’uso delle nuove tecnologie diventa indispensabile la presenza di quei giochi tradizionali che “servono” per crescere, la cui promozione nelle scuole assume una doppia valenza: didattico-educativa e ludico-sportiva, proponendosi come rinnovato centro d’interesse per i più giovani.

- da AetnaNet del 2 Aprile 2012 
- da Sotto Le 2 Torri - Il Foglio di Bologna n° 30 - Marzo 2012 - Pagine 28-29